top of page

Joaquin Rusconi - PRIMO CLASSIFICATO

Dall’Altra Parte

Mansur Haji ricorda ancora oggi il giorno in cui gli uomini in nero arrivarono nel suo paese e gettarono la sua vita nel caos. Si lasciarono dietro soltanto morte e distruzione, e per quanto fosse piccolo ai tempi, nella sua mente rimasero ben impresse le urla strazianti, il sangue dei suoi genitori e il fragore assordante dei fucili. Era ancora troppo giovane per comprendere perché degli sconosciuti avessero fatto una cosa del genere e lo era fin troppo perfino per capacitarsi di quanto fosse fortunato ad esser sopravvissuto a quella tragedia. Oltre a lui, gli sconosciuti risparmiarono un gruppo di anziani, bambini e qualche giovane ragazza che violentarono brutalmente, tra cui sua sorella, Hayat. Haji ricorda che I primi giorni non riuscì a spiegarsi il significato del silenzio di tomba che impestava l’aria del villaggio, della tristezza che pervadeva i volti delle genti, e del mutismo fatale di sua sorella. Solo dopo anni riuscì a dargli un senso. Solo oggi sa cosa significa veramente dolore.

Qualcuno parlava di levare le tende e di emigrare verso nuovi orizzonti, ma subito fu tacitato dalla maggioranza: Per quanto potesse esser dura ricominciare, l’attaccamento alle proprie radici e l’amore per il proprio pezzo di terra rimaneva ben saldo nel cuore dei paesani. Col passare del tempo, tutti cominciarono a credere nel sogno comune di rinascita, e ognuno di loro diede tutto ciò che poté per esso, e come succede ad una brutta ferita, lo spasimo si dileguò, e le persone cominciarono a ricordare cosa significasse veramente vivere, a ricostruire e a dimenticare; non tanto per il piacere di farlo, ma per poter sopravvivere. Come rose da una pianta rinata, nuovi bambini nacquero, coppie felici sbocciarono e si fecero guidare dai saggi anziani. Tutto sembrava essere tornato come prima, anche sua sorella sembrava aver dimenticato; infatti, per la prima volta nella sua vita, si era legata ad un uomo, più anziano di lei, affabile, dotato di forte perspicacia e di un cuore immensamente buono.

Anni dopo, quando i primi peli comparvero sul viso di Haji, e sua sorella era incinta di qualche mese, un altro evento sconvolse nuovamente il fragile equilibrio del villaggio risorto. Questa volta i misteriosi uomini in nero non c’entravano, perché il disagio era causato da una terribile siccità, che portò ad una funesta carestia. La situazione non precipitò subito nella disperazione; infatti, mentre il cibo iniziava a scarseggiare, gli uomini più importanti del villaggio ebbero tempo sufficiente per poter discutere su come provvedere alla situazione. Tra le varie soluzioni, quella che riscosse più consensi fu quella di chiedere aiuto all’insediamento più vicino, che si trovava ad un giorno di cammino da lì. Tutti però, quando si trattò di attuare il piano, si chiamarono fuori; tutti tranne uno. Stupiti, gli chiesero perché avesse intenzione di farlo, e lui rispose che la vita delle persone che amava era più importante della propria, e che nessun prezzo era troppo alto per essere pagato.

Era lo sposo di Hayat, e tuttora Mansur si vergogna di non riuscire a ricordare il suo nome. Nell’alba di un giorno rovente e spietato come pochi, si fece coraggio, baciò sulle gote la sua amata e con un amaro atroce in bocca, partì verso l’ignoto: verso l’unica speranza che poteva salvarli. Le ore che seguirono furono più pesanti del piombo, e la situazione, così muta e disperata, era fin troppo famigliare per Haji. Anche questa volta sua sorella si murò dietro ad un impenetrabile silenzio, stavolta non per dolore, ma per paura. Paura non solo di perdere l’unico uomo che aveva mai amato, ma anche di dover spiegare al proprio figlio che aspetto avesse il padre. In questo marasma di sentimenti angosciosi, Mansur fu l’unico che non si abbandonò allo sconforto. Certo, anch’egli dovette ammettere che la situazione era tanto drammatica da far impallidire, ma dentro lui rimaneva sempre forte la convinzione che sarebbe tutto volto al lieto fine. Per quanto la voglia di migrare si facesse sempre più pressante tra i conoscenti, Haji non si fece coinvolgere, e giudicò quell’eventualità tanto remota da non doverla nemmeno considerare. Colmo di questi pesanti pensieri, Il giorno passò lento, e finalmente il sole smise di illuminare il mondo. Il giorno seguente, Mansur lo ricorda bene, e rammenta con precisione che quando si svegliò per uscire all’aperto, nessuno ancora si era destato, tranne sua sorella. La vide seduta, poco lontana dal pozzo del villaggio. La raggiunse e le chiese cosa stesse facendo, e sebbene Mansur non possieda una grande memoria, si ricorda ancora cosa disse:

<<Sorella>>

<<Mansur...>>

<<Sì?>>
<<Ho paura>>

Rispose con la voce spezzata, e dei rigagnoli di lacrime le solcavano le guance. Haji sa perché non si è dimenticato ancora queste parole. Queste parole furono, infatti, le ultime che la dolce bocca di sua sorella pronunciò. Da quella mattina in poi, la situazione cominciò sempre più a precipitare nella totale angoscia. Passò una settimana, l’acqua divenne sempre più rara e il cibo fu tanto scarso che ogni persona del villaggio andava a dormire lottando contro l’agonia dei crampi della fame. E in tutto quel tempo, il marito di sua sorella non era ancora tornato. Un giorno, gli anziani del villaggio considerarono l’ultima, disperata, decisione che si potesse ancora prendere: emigrare. Viste le condizioni, era più che ovvio che questa era l’opzione più saggia da prendere e Mansur, superata la perplessità iniziale, era più che pronto per compiere questo passo.

Nessuno si oppose, tranne sua sorella, che dal suo perenne eremo silente, diede la sua disapprovazione. Cercarono più volte di farle ritornare la voce, ma non riuscirono. La perdita di suo marito era una dolore troppo forte per il suo cuore, e ormai non sembrava nemmeno voler più mangiare o bere. Per quanto la riguardava, la sua vita era finita. Mansur tuttora non sa se sua sorella stesse pregando o soltanto piangendo, ma pensarci gli provoca un forte dolore, e nel profondo nutre la speranza che sia ancora viva. Arrivò il giorno della partenza: era tutto pronto, avevano con loro tutta l’acqua e il cibo che potessero racimolare. Ormai Haji era consapevole che nulla avrebbe convinto Hayat ad abbandonare la sua alienazione, quindi si avvicinò a sua sorella per un’ultima volta, e le promise che sarebbe stato forte per mamma e papà, che non si sarebbe mai arreso e che avrebbe pregato ogni giorno per lei, suo figlio e suo marito. La baciò sulla fronte, le bisbiglio addio e con la più atroce melanconia che gli opprimeva l’anima, e le lacrime che lo accecavano, lasciò alle sue spalle tutto ciò che era stato la sua vita fino a quel momento.

Vagarono per giorni senza meta, e innumerevoli e funeste disavventure portarono Haji e la sua gente sofferente tra le grinfie di uomini subdoli, armati e con intenzioni del tutto ignote, ma di certo, non benigne. Vennero fatti caricare dagli estranei su dei furgoni e furono portati, dopo viaggi resi infiniti dalla sete, dal caldo, dalla fame e dalla paura di morire, in una costa isolata di un mare sconosciuto. Là c’erano uomini, donne e bambini, che per lo stesso misterioso motivo, erano finiti in quel posto. Girovagando per quel luogo, scoprì che la maggior parte degli occupanti non parlava la sua lingua. Passarono ore, quando ad un tratto trovò un ragazzo di circa la sua età che comunicava con, pressappoco, le sue stesse parole. Divennero presto amici e, con gran stupore, Mansur scoprì che la sua nuova conoscenza sapeva il perché del loro viaggio.

Aimen, così si chiamava, disse che, non appena sarebbero stati pronti, li avrebbero caricati su una barca, per poi portarli dall’altra parte del mare, dove infinite ricchezze li aspettavano. Haji non si aspettava affatto tale possibilità, e rimase basito dalla notizia. Forse perché era stremato, o perché troppo ingenuo, credette a tutto senza porsi nemmeno una domanda. Con la consapevolezza di ciò che sarebbe successo, passò il tempo dell’attesa ad esplorare, rapito dall’entusiasmo, la spiaggia deserta. E proprio mentre camminava contemplando i ciottoli spinti di continuo e senza tregua dalle forti correnti del mare, delle urla giunsero alle sue orecchie. Provenivano dall’imbarcazione sulla quale avrebbero fatto la traversata. Nella sua passeggiata, si era allontanato non poco e ora, temendo che si dimenticassero di lui, corse all’impazzata verso la sua unica salvezza. L’imbarcazione era piccola, angusta, lurida e piena zeppa di persone. Mansur sperava vivamente che il viaggio sarebbe durato poco, perché per quante bottiglie ci fossero, con un rapido calcolo si capiva che sarebbero bastate soltanto per qualche ora. Più la barca si allontanava dalla costa, più il sogno di una vita senza fame né sete si avvicinava, e quando finalmente di terra non ne vide più, fu al settimo cielo. Ad un tratto, uno degli scafisti urlò qualcosa all’altro, ma nessuno dei passeggeri capì cosa stesse dicendo. Entrambi erano occidentali, ed erano gli unici a bordo. I loro volti e le loro voci erano intrise di rabbia, una rabbia che, senza preavviso, scoppiò. Uno estrasse la pistola, e subito fu seguito dall’altro, che temendo per la propria vita, gli sparò. Il putiferio dominò la nave e, in preda al terrore, i migranti cominciarono a muoversi caoticamente, provocando così il rovesciamento dello scafo.

Mansur Haji è un ragazzo siriano, e sete e fame ormai non conosce più. Il dolore e le altre preoccupazioni che lo uccidevano lentamente mentre viveva nel suo villaggio, hanno smesso di tormentarlo.

In fondo al mare, ciò che può disturbare il sonno di un morto sono solo i ricordi e il sapore amaro di esser naufragato durante il tragitto, senza aver mai scoperto cosa ci fosse realmente dall’altra parte. 

 

AVERE NIENTE, MA POSSEDERE TUTTO: LA VITA 

Sara Bombardieri

Solitudine.
Non avevo mai provato una sensazione simile. Certo, nel mio piccolo villaggio situato nella Libia meridionale non c'era il pericolo di sentirsi soli. Tutti si conoscevano, ci si aiutava e ogni sera ci si riuniva intorno a un piccolo fuoco per pregare e ringraziare Allah per i doni della natura e per la giornata donataci. Allah, chissà se in quel momento, almeno lui, stava vegliando su di me, ma soprattutto cosa pensava di tutto ciò che si era succeduto in questo ultimo periodo?
Si, perché da un momento all'altro ogni cosa era cambiata in Libia. I visi si erano trasformati in maschere inanimate con occhi spenti da cui trasparivano preoccupazione e terrore. Ma di cosa?

Come bambina di soli sette anni non capivo il malessere dei grandi, io ero felice perché si stava avvicinando l'estate, la mia stagione preferita con i fiori, il sole, il caldo, i bagni nel ruscelletto e i giochi d'acqua con i bambini del villaggio. Non potevo desiderare altro!

Eppure qualcosa mi faceva presupporre che quest'estate sarebbe stata diversa, i cumulonembi si preparavano a coprire l'azzurro cielo.
Sovente, infatti, nel cuore della notte, sentivo Ba e Ma parlare. Mama piangeva mentre Ba continuava a sussurrare: "Non avere paura, Allah è con noi".

Era bello avere due genitori che si amavano da così tanto tempo.
Mama era stata costretta a sposare Ba quando aveva appena dieci anni. I primi tempi era stato difficile, ma pian piano Ma si era innamorata di suo marito. Baba è sempre stato geloso dal momento che considerava Ma la donna più bella del nostro villaggio. Ogni giorno, dopo il lavoro, le portava un mazzo di fiori profumatissimi raccolti durante il suo tragitto verso casa. Mama aveva sempre il sorriso sulle labbra e pronta ad aiutare tutti. La gente del villaggio, infatti, le voleva bene e per dimostrarle la loro gratitudine ogni tanto le offriva frutti del loro raccolto. La mamma era una donna forte e ciò faceva di lei il mio modello da seguire. Come sarebbe stato bello diventare come lei!
Anche dopo la disgrazia che aveva colpito la nostra famiglia lei non aveva perso la sua voglia di vivere. Grazie a lei eravamo riusciti a ritrovare la serenità. Già, perché poco prima del periodo del ramadan mio fratello, Ali, di soli sedici anni si era gravemente

ammalato. Ma e Ba fecero di tutto per migliorare la sua salute e io gli restai vicino per giorni e giorni con la preghiera. Tuttavia, in poche settimane se ne andò per sempre, o meglio così mi dissero i miei genitori in lacrime la mattina del rito funebre. Perché 

Allah mi aveva portato via il mio migliore compagno di giochi?
Era difficile rispondere a questa domanda anche perché nemmeno i grandi sembravano trovare un'affermazione razionale.
Eppure io non ero triste, solamente un po' spaesata in mezzo a tutte quelle persone che piangevano e mi abbracciavano. Ali, infatti, mi aveva promesso che una volta che il

suo corpo avrebbe ceduto alla malattia e, quindi, avrebbe chiuso gli occhi per sempre, egli si sarebbe trasferito in un mondo con tanta luce e lo avrei potuto ammirare ogni sera, sicuro che mai mi avrebbe abbandonato. Certo era che non comprendevo ancora ciò che le sue parole volevano dire.

Ma ora qui sola nel buio, lo stavo ammirando in tutta la sua bellezza e luminosità. Lui, a differenza mia, non era abbandonato, c'erano tanti altri che lo circondavano e sicuramente giocavano con lui. La sua luce illuminava non solo il mio volto rigato di lacrime, ma anche quella distesa d'acqua su cui galleggiava la mia piccola zattera.

Non sapevo dove mi trovavo, ero spaventata e infreddolita e continuamente assillata da ricordi. Grida. Tutto ciò che ricordavo di quello che era successo poco prima.
lo, Ba e Ma eravamo partiti dalla Libia il mattino presto. La guerra civile era iniziata ed era ormai impossibile sopravvivere. Ma che cosa era la guerra? lo non ne avevo mai sentito parlare e i miei genitori mi spiegarono che era causata dall'odio tra degli uomini. Ma perché i grandi si odiavano, se insegnavano a noi di volerei tutti bene? Grida. Gente che si ammassava sull'imbarcazione troppo piccola per persone troppo grandi. Grida. Il mare, il gigante buono, cullava la nostra barca e ci portava... Dove? Grida. A un tratto l'imbarcazione si era inclinata e il mare, l'innocente malvagio, aveva inghiottito, una ad una, quelle persone. Grida, grida. Avevo paura e mi strinsi forte a Ba che aveva lanciato in mare una piccola zattera, trovata sulla barca e mi ci spinse sopra. Grida, grida, grida, grida.

Silenzio. Tutto era scomparso nel profondo blu e rimasi sola. Silenzio.
Proprio quando mio fratello emanava una luce sempre più tenue, sentii qualcuno alle mie spalle. Un uomo con una piccola imbarcazione mi guardava, dai suoi occhi trasparivano compassione e benevolenza. Mi tese la mano e sorrise. Silenzio.
Rivolsi uno sguardo a Ali, lui non mi avrebbe abbandonata ed era necessario fidarsi di quell'uomo. Mi lasciai cadere tra le sue braccia. Braccia forti, braccia protettive, braccia paterne, braccia sicure. Silenzio.
Quando mi svegliai era buio. Dove mi trovavo?
Rivolsi lo sguardo al mio salvatore che mi accarezzò. Da lontano si intravedevano delle luci. Luci che gridavano speranza, luci che gridavano libertà, luci che gridavano accoglienza, luci che gridavano futuro migliore.
Quando divennero più nitide, mi accorsi che si trattavano di luci di una città, sovrastate da una luce ancora maggiore, Ali.
Per la prima volta sorrisi. Sapevo che la mia vita sarebbe cambiata e questo mi spaventava, ma ero viva. 

Bisognava sorridere alla vita. Lo dovevo a me, a Ba, a Ma, ma soprattutto a Ali sempre presente in quella luna piena circondata da una costellazione di stelle e che mai mi avrebbe lasciata sola.

 

 

Storie di Popoli 

Martina Rovedatti

Non basterebbero un mare di parole per raccontare le storie della gente che il mare lo attraversa per sopravvivere. Un mare di paure, di speranze, di preghiere, di sofferenze, di urla, di fame, di povertà, di niente, di guerre, di uomini, di donne, di bambini, di persone.

Ad accoglierli, una distesa infinita di acqua e sale, i fili spinati ai confini, l'indifferenza della gente, o la vita, o la morte.

È a questo che, a volte, non ci fermiamo a pensare, quando chiudiamo le frontiere, e quando chiudiamo i cuori, a quel mare che ci porta tante barche, tante vite, ma che si porta via, tra le sue onde, tante altre cose. 

Per noi non hanno nome, né quelli che arrivano, né quelli che non arriveranno mai, eppure li abbiamo già giudicati.

Li accogliamo con barriere invalicabili, con sguardi disgustati, con l'umiliazione perché non hanno quello che abbiamo noi, li escludiamo dalla nostra vita, e non sappiamo nulla di loro, tranne che non li vogliamo.

Immigrazioni verso l'Europa, e dall'Europa verso altri Paesi, ce ne sono sempre state. E, in tutto questo tempo, abbiamo solo imparato a costruire meglio i fili spinati.

Vogliamo la pace nel mondo, e tra le nazioni, quando la pace non riusciamo a portarla nemmeno tra le nostre vie, tra di noi.

Siamo delle contraddizioni viventi. Vogliamo l'uguaglianza e la libertà, vogliamo i nostri diritti, e siamo i primi a negarli agli altri, quando non vogliamo che i barconi arrivino sulle nostre coste, che gli stranieri inizino a lavorare, che il nostro Paese li accolga. 

Ma se si trattasse di noi? Se fossero i nostri figli ad attraversare un mare non solo di acqua e sale, ma anche di pregiudizi e violenze, ad abbandonare il loro Paese e la loro famiglia, che cosa vorremmo per loro? 

Con i continui arrivi di profughi sulle coste italiane, sembra sempre più che la popolazione abbia dimenticato che di diritti non ne abbiamo solo noi. 

A volte, siamo così ciechi da non renderci conto di quanto sia meraviglioso lo scambio di cultura che potrebbe avvenire, di quanto potrebbe arricchirci condividere le nostre idee, le nostre tradizioni, renderci persone migliori, aprirci a nuovi orizzonti, gli orizzonti di altri continenti, che forse non vedremo mai, e che continueremo a non vedere finché non apriremo gli occhi.

È tutto lì, di fronte a noi, forse troppo lontano, ancora, per arrivarci.

Siamo sopravvissuti ai millenni contando gli uni sugli altri, non possiamo condannare oggi i nostri simili. Come non possiamo essere così tremendamente superficiali da innalzare mura tra di noi e odiare o temere quelli che hanno un diverso colore della pelle, perché sotto siamo tutti uguali, o tra noi e quelli che parlano una lingua differente, perché ci diciamo tutti le stesse cose, o tra noi e quelli che credono in un Dio che non è il nostro, perché lo pregano per le stesse cose per cui preghiamo noi.

Ci inteneriamo un po' quando scorrono al telegiornale le fotografie o i filmati di bambini malati, soli e abbandonati, affamati e sofferenti, e allora pensiamo a quanto sia stato crudele il mondo con loro, e forse sarebbe meglio aiutarli... beh, forse non proprio noi, meglio qualcun altro. 

Ma c'è altro, oltre a quello che vediamo. Ci sono storie segrete che non conosceremo mai, di persone che fuggono dai conflitti armati dei loro Paesi, dove esplodono bombe e persone, e c'è sangue nelle strade, sui muri, sui vestiti, che sperano in un futuro migliore, con un lavoro e delle condizioni di vita che gli permettano di vivere, non solamente di sopravvivere, eroi di ogni giorno che combattono per la loro famiglia.

Noi bravi occidentali, che non sperimentiamo queste cose, non le possiamo capire, se non ci sforziamo, e finiamo sempre con il fare ricadere le nostre colpe su qualcun altro. Qualcuno non ci arriverà mai, qualcuno ci arriverà subito, siamo fatti così, non siamo uguali nemmeno se siamo nati nello stesso Paese.

Qualcuno, pigramente seduto sulla sua poltrona a guardare la TV, continuerà a pensare che gli stranieri gli stiano rubando il lavoro; qualcuno si farà vaccinare, per paura di prendere malattie, poi andrà a mangiare cibo industriale dalle multinazionali; qualcuno, mentre giocherà la schedina, si lamenterà che chi arriva con i barconi ha più soldi di lui; qualcuno avrà paura di essere derubato, e cercherà in tutti i modi di aggirare il pagamento delle tasse; e qualcun altro troverà sempre nuovi modi per giustificare la sua condizione, per convincersi che non è sua la colpa, ma di quelli che arrivano, e allora no, non dobbiamo permettergli di arrivare, ricacciamoli indietro.

Smettiamola di avere paura o di giudicare di ciò che non conosciamo, abbattiamo le distanze, non solo quelle geografiche, ma anche quelle culturali. 

Quando le distanze sono numeri, colmarle è facile, ce lo insegnano proprio loro, ma quando sono barriere della mente, è già più difficile. 

Abbiamo abbattuto muri, ma ne abbiamo anche costruiti altri, abbiamo abbattuto dittature e dittatori, ma non lasciamo la libertà agli altri, abbiamo chiuso campi di concentramento, e aperto campi di sfruttamento, abbiamo istituito organizzazioni governative e non governative, eppure non cooperiamo per aiutarci.

Conosciamo numeri (approssimativi), non nomi. Sappiamo da dove vengono (o quasi), non sempre dove sono diretti. Vediamo immagini di guerra e morte, povertà diffusa in contrasto alla ricchezza dei potenti, fame disperata, malattie gravi o mortali, ma non abbiamo mai provato nessuna di queste cose, le vediamo ma non le guardiamo. 

Chi sono? Altri. Che cosa sappiamo di loro? Solo che non li vogliamo, e ci basta questo.

L'ignoranza, a volte, miete più vittime di mari, fame e guerre messi insieme.

Proprio in questo momento, tante, troppe persone, stanno combattendo una dura battaglia per vivere ancora un giorno, solo per trovarsi davanti a migliaia di porte sbattute in faccia e volti girati dall'altra parte. Possiamo cambiare tutto questo.

Dobbiamo leggere, scrivere, parlare, imparare, informarci e informare, confrontarci, incrociare gli sguardi e non sfuggirli, cooperare per migliorare, assaggiare cibi diversi e inventarne di nuovi, mischiarci e non isolare, conoscere storie, persone, città, tradizioni, e darne vita ad altre, dobbiamo incontrarci, non scontrarci, viaggiare e lasciare che gli altri viaggino, verso di noi o lontano da noi.

I confini nella storia sono sempre stati mutabili, proviamo ad ampliare i nostri.

MI CHIAMO AMHIR

Federica Mozzi

Mi chiamo Amhir, ho 23 anni, sono nato a Ras al Ayn in Siria e sto fuggendo dal mio paese, dilaniato dalla guerra civile. L’esercito siriano autonomo combatte contro le forze governative e i curdi siriani e noi dobbiamo scappare dalle violenze, dal disordine, dalla fame, dalla mancanza di medicine…dalla morte. Dobbiamo farlo per salvare la nostra vita. Non ho più nulla, solo i soldi racimolati, millecinquecento euro, da dare agli scafisti per un viaggio verso l’Italia. Non so come sarà il mio futuro, ma sono alla deriva e qualsiasi cosa accadrà sarà meglio di tutto questo orrore, di questa disperazione. A Ras al Ayn lascio mia madre e tre fratelli e spero un giorno di poter ritornare. In Italia mi auguro di trovare una speranza, un lavoro che mi consenta di vivere e di aiutare la mia famiglia. Non chiedo altro al buon Dio, solo di vivere la mia vita senza avere costantemente la paura di perderla. Ho scelto l’Italia perché, da noi, dicono che gli italiani sono brava gente e che il loro paese è accogliente. Ci sono dei campi per l’accoglienza anche in Turchia ed in Giordania, a Zaatri, ma io ho preferito lo stesso l’Italia..  speriamo. Ti prego Dio, stammi vicino, ho paura…Siamo tanti, troppi su questa imbarcazione…Qualcuno non ce l’ha fatta ed è morto per gli stenti, li hanno buttati in mare…ed il mare di notte mi fa paura, è nero, troppo nero…

Queste sono le pagine di un diario trovato sulle rive di Lampedusa, un diario sgualcito, uno dei tanti resti del barcone naufragato presso l’Isola dei Conigli: Amhir non ce l’ha fatta…Il suo sogno si è infranto su queste rive e le onde di questo mare hanno voluto consegnare all’umanità, quasi come estremo gesto di pietà, questo ultimo grido di aiuto e di speranza, il grido di un giovane in cerca di un domani che non avrà. Gli è stato negato dalla cattiveria, dall’avidità, dall’indifferenza di altri esseri “umani” a cui lui tendeva la mano. Non c’è umanità in queste storie, dove la dignità e la solidarietà umana sembrano essere valori ormai dimenticati, sepolti come tutti quei corpi celati dal mare.

Ho visto un reportage: c’era un cimitero, a Lampedusa, che si specchiava in acque cristalline, dove l’azzurro del mare si confondeva con il blu del cielo; in questo luogo incantato, che sembra uscito dalla tela di un pittore, hanno sepolto i corpi dei profughi, annegati durante l’ennesimo viaggio della speranza, c’erano le croci e i fiori freschi e colorati…Non importa a che religione essi appartenessero o che nome dessero al loro Dio…I Lampedusani hanno voluto affidarli ad un Dio, quello che loro conoscono, quello al quale si rivolgono quando pregano…Mi sono commossa e mi sono sentita orgogliosa di essere italiana, di appartenere ad un popolo che va avanti grazie a tanti volontari che danno ancora valore alla vita, agli uomini. La vita è sacra e la sua tutela dovrebbe essere un diritto per ogni essere umano, senza distinzioni di colore o religione.

La migrazione imponente di profughi, che stanno fuggendo dalla situazione difficile del medio oriente, sta mettendo in ginocchio l’Europa ed in crisi i rapporti tra i paesi europei così come il trattato di Schengen, una grande conquista per la democrazia europea. L’Italia si sta battendo per vedere riconosciuti i diritti umani dei profughi e questo, secondo me, fa onore al nostro tanto criticato Paese.

L’umanità, nel corso della storia, ha sempre conosciuto la migrazione per cause legate a guerre, carestie, occupazioni. Gli italiani, per esempio, emigrarono in Germania, in America e in Australia in seguito alla grande crisi economica post bellica, emigrarono in cerca di fortuna e molti la trovarono, ma in ognuno di loro restava la grande malinconia ed il dolore per aver dovuto lasciare il proprio Paese, le proprie radici.

La storia ci racconta anche di grandi atrocità subite da uomini per mano di altri uomini, come la persecuzione degli ebrei e la loro deportazione, per opera dei nazisti di Hitler; pagine sconvolgenti che non hanno impedito all’uomo di perseverare nell’odio verso chi appartiene ad una etnia o cultura diversa, pagine di orrore che continueremo a scrivere se non impareremo a vedere nella diversità dell’altro una ricchezza e non una minaccia. Mi tornano alla mente i versi di una poesia che io scrissi lo scorso anno.

La poesia recitava così:

 

Terra…

Profumi di muschio,

di legno dopo un temporale,

un odore forte, come la voglia che ho di ritornare.

Terra…

Profumi di salsedine,

di querce o pini e fiori,

porti in te antichi suoni.

Terra…

Culla di pensieri,

sapori, colori,

in te, la vita affonda le sue radici,

che troppe volte bisogna spezzare,

in cerca di un sogno da realizzare,

radici spezzate, come cicatrici fanno male…

Un suono, un profumo mi fanno ricordare quell’emozione antica,

quel legame viscerale…

E una lacrima scende,

solca il mio viso,

tracciando un percorso che brucia,

come i ricordi,

perché lontano ancora sento,

il fruscio dei miei passi incerti,

mentre mi allontanavo da te...

 

 

per Amhir…ovunque tu sia…

E per tutti quelli che lasciano il loro Paese per inseguire un sogno

IL PUZZLE DEGLI IMMIGRATI 

Giada Nana 

Migrazione ,” notevole spostamento di uomini da una ad altra sede “ 1 , una sola parola che racchiude in sé diversi aspetti della vita umana , una parola densa di significato e carica di progetti e aspettative.

I Paesi lottano per risolvere questo fenomeno , diventato una grande sfida degli ultimi anni perché si trovano di fronte migranti che ogni giorno cercano di combattere a colpi di realismo , empatia e fede
l’ incontrollabile volontà di raggiungere l’ Europa , divenuta la meta principale di questi flussi migratori che interessano non i singoli individui , bensì intere popolazioni.
Il caos prodotto da questi flussi migratori ha messo i governi dell’ Unione Europea l’ uno contro l’ altro , aprendo una crepa tra i 28 Paesi che la compongono , mostrando così il peggior difetto dell’Europa :
l’ incapacità di intraprendere azioni collettive 2 .
Nessun Paese può risolvere questo problema da solo , ma qual è la decisione migliore da prendere?
Alcuni di essi hanno risposto chiudendo le frontiere e imponendo restrizioni al diritto d‘ asilo , tanti hanno accolto a braccia aperte i loro simili.
Le posizioni all’ interno dei Paesi dell’ Unione Europea è contraddittoria , tanto che le scelte politiche riguardanti i confini , le questioni economiche e le diverse culture lasciano i Paesi europei , che si affacciano sul mediterraneo , soli nella gestione degli arrivi e
nell’ accoglienza dei migranti , tanti dei quali sono rifugiati politici.
L’ Italia ad esempio in questi ultimi anni ha visto raddoppiare il flusso dei migranti , sbarcati soprattutto a Lampedusa e Pantelleria.
Al 1 gennaio 2015 le persone accolte sono poco meno di 60 000, evidenzia la fondazione Migrantes , la quale ricorda che 18 599 di questi sono minori non accompagnati 3 .

4.

L’ incidenza della popolazione straniera su quella italiana è un dato in continua crescita : nel 1990 gli stranieri erano lo 0,8 % della popolazione , nel 2000 il

Gli immigrati presenti nelle strutture d'accoglienza

( temporanee , centri d' accoglienza e per richiedenti

asilo , posti Sprar ) sono attualmente 67 128 .

Le presenze più numerose si registrano in Sicilia

( 13 999 persone , pari al 21 % del totale nazionale).

Seguono Lazio ( 8 490 , pari al 13 %) , Lombardia ( 5 863,

il 9 %) e Puglia ( 5 826, il 9 %)

È nelle 1 657 strutture temporanee presenti in tutta

Italia che si trova il maggior numero di ospiti

( 37 mila ).

2,5 % e solo nel 2015 ha superato il 5 % .
Questi sono gli ultimi dati validati da Eurostat che abbiamo, tuttavia l’ISTAT ha già calcolato la popolazione straniera residente al 1 gennaio 2015 , che è 5 073 000 unità ( 8,3 % della popolazione totale) .
L’aumento rispetto all’anno precedente è quindi 150 915 unità , cioè più del 3 % .
Tale incremento è dovuto tuttavia soprattutto alle nascite di bambini stranieri sul suolo italiano
( circa 97 mila nel 2014 ) , piuttosto che a una nuova immigrazione 5 .
Mentre Paesi come l’Italia accolgono un ampio numero di immigrati, ( nonostante i problemi economici , dimostrando grande coraggio e solidarietà , tanto da meritarsi forse il Nobel per la pace ) , altrove la chiusura dei confini da parte di alcuni Stati non fa che aggravare la situazione umanitaria , non rispondendo al bisogno primario di ogni essere umano: la libertà.
A difesa dell’ Unione Europea c’è però da dire che tale questione è aggravata dalle paure per infiltrazioni terroristiche che hanno aggiunto altre tensioni e che certo non facilitano l’integrazione degli stranieri , non si possono dimenticare infatti i vari attentati verificatisi in Europa e in America in questi ultimi anni.
Tale è la giustificazione addotta dai Paesi che hanno ripristinato i controlli alle frontiere.

È necessario però ricordare quanto detto

nel considerando n. 5 del regolamento di riforma del

Codice delle frontiere Schengen , il quale

afferma chiaramente che “ La migrazione e

l’ a raversamento delle fron ere esterne di un gran

numero di ci adini di paesi terzi non dovrebbero in s

essere considerate una minaccia per l’ ordine pubblico

o la sicurezza interna ” , pertanto non bisognerebbe

mettersi in allarme considerando ogni immigrato una

minaccia 6 .

Purtroppo non c’è niente di facile in questa faccenda , ogni capo politico , ogni nazione , ogni governo crede di agire nel giusto.

Intanto mentre l’Europa litiga 7 , la situazione dei migranti resta grave e fino a quando ogni casella del puzzle non andrà al suo posto la situazione non migliorerà .

“Le porte possono anche essere sbarrate, ma il

 

problema non si risolverà, per quanto massicci possano

 

essere i lucchetti. Lucchetti e catenacci non possono

 

certo domare o indebolire le forze che causano

 

l’emigrazione; possono contribuire a occultare i

problemi alla vista e alla mente, ma non a farli

 

scomparire “ 8 . 

Bibliografia

1)  Migrazione , Vocabolario Treccani .

2)  L’ internazionale , anno 23 , “ Alta tensione tra

Sauditi e Iraniani “ . Dati fondazione Migrantes

2014 .

Schengen ,14 giugno 1985 , Al 2015,

 

lo Spazio Schengen comprende 26 paesi che

 

applicano integralmente l'acquis di Schengen (22

 

Stati membri dell'Unione europea e quattro Stati

 

associati). 

3)  Tg com24 , Cronaca immigrazione .

4)  Dati Eurostat e Istat anno 2014 / 2015 .

5)  Trattato di

6)  “Fuga e morti mentre l’ Europa litiga” , La città di Salerno .

7)  Zygmunt Bauman,” La società sotto assedio” .

bottom of page